Per tutta Europa uscì il grido dei fatti di Brescia; maravigliosi ai popoli, paurosi a quanti speculano sul letargo universale. La Francia usuraja più giorni stette in timore, che per codesta eroica testardaggine non avesse a precipitar l'altalena della Borsa, su cui si gioca l'onore ed il sangue delle nazioni; e perciò se ne vendicò pigliando ardire co' suoi giornalisti venderecci che ai Lombardi dessero ogni mala voce per la guerra infelice, e che il moto di Brescia, sì unanime e disciplinato, colorassero come tumulto di poveraglia, e furore di matta demagogia. La Germania, pur deplorando la tigrina ferocia dell'Haynau, non seppe però difendersi da quel suo stolto e quasi barbarico culto della forza e della fortuna. Ma l'Italia, che dopo i fatti di Novara cominciava a disperare di sè stessa, imparò da Brescia come si possa colla gloria consacrare la sventura e salvar l'eredità dell'avvenire.
In Piemonte soprattutto le novelle dell'insurrezione bresciana commossero profondamente gli animi, che, inveleniti dalla sciagura, già si volgevano alle fraterne maledizioni. Il mal concetto sdegno diè subito luogo alla pietà ed all'ammirazione; e l'ira si volse contro i capi dell'esercito, e contro ì nuovi ministri, che segnando ed accettando l'armistizio non avessero pensato a Brescia, la quale combatteva ancora sotto la bandiera del Regno; anzi l'avessero concessa, come vittima espiatoria, a saziar il furore dei nemici. Molte cose furono di ciò dette e scritte, che aggravano o assolvono il governo di Vittorio Emanuele II: e noi diremo, come lo sappiamo, il vero
Che Brescia fosse, sopra ogni altra città lombarda, confidente nel Piemonte, e deliberata a mettersi a qualsiasi sbaraglio, non lo ignoravano nè re Carlo Alberto, nè il Ministero democratico, nè il Generale maggiore, col quale anzi la Commissione insurrezionale rimase in concordia del giorno in cui s'aveva a cominciare il moto: e fu il 21 di marzo. Non è qui luogo che si narrino gli ostacoli che impedirono ai fuorusciti d'armarsi tutti, come pur volevano e chiedevano sdegnosamente, e di precorrere l'esercito. Qui non vogliamo parlare che dei Bresciani i quali il 19 marzo ebbero, come dicemmo, un messo sicurissimo, che loro recò gli ultimi ordini da Torino e dal campo; e ne lo rimandarono tosto al General maggiore con lettere gelosissime, in cui s'apriva il segreto delle mosse degl'Imperiali verso Pavia. Il Chzarnowski la mattina del 22 riceveva ne' suoi quartieri di Novara queste lettere che certo gli dovevano ricordare Brescia: ma i fatti che quel giorno e il dì appresso s'incalzarono gli fecero uscir di mente forse troppe altre cose. Anche al general Alfonso La Marmora, che colla sua divisione era disceso a Parma, due volte capitarono messi di Brescia per averne consigli ed ajuti. A Torino poi, ove fino al 26 marzo si stette in agonia di aspettazione anche per le novelle del campo, i fatti di Brescia non si seppero che di straforo, e tardi. Un primo rumor vago, come di presentimento, ne corse il 26; il 27 giunsero lettere per la via di Parma, che narravano la sommossa del 23. Il giorno appresso un ufficiale lombardo ne dava avviso al nuovo Re, il quale subito ne scrisse al campo. Alcuni membri della Commissione insurrezionale accompagnarono il messaggiere. Il Chzarnowsky se ne mostrò nuovo, e il generale Alessandro La Marmora ne fu commosso alle lagrime: onde si potè argomentare che non era più da mettere speranza alcuna nelle armi. Protestò allora la Commissione ai Ministri perchè s'interponessero colle pratiche e co' preghi a salvare dall'estrema ruina la fortissima città: e n'ebbe parole e promesse che poi non si videro seguite da alcun effetto.
Ma forse allora già troppo si era tardato; colpa le tenaci speranze e le incertezze che, tennero per quasi dieci giorni sospesi gli animi di tutti fra la disperazione eroica, e lo spossamento codardo. Fino al 26 si sperò nell'esercito; fino al I° aprile nel Parlamento, nel popolo, in Genova, nelle divisioni del Fanti e del La Marmora, in Brescia, in Venezia: tanto abborrivano le menti dal rassegnarsi alle immeritate sciagure.