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mente, irrompeva nelle sale e si lanciava sul comandante stesso, e lo avrebbe mal concio se i cittadini Sangervasio, Rossa ed altri non lo avessero salvato dal furor popolare. Veniva però disarmato e fatto prigioniero dal popolo, che lo traduceva sui ronchi, affidandolo alla custodia dei corpi-franchi che quivi si ritrovavano. Mentre al Municipio seguiva quella scena, nell'attigua contrada degli Orefici passava un convoglio di viveri scortato da un picchetto di soldati e diretto al castello. Molti arditi del popolo, muniti soltanto di bastoni, si scagliavano con disperato coraggio sulla scorta, e fu tale la sorpresa, che quei soldati non ebbero campo di scaricare le loro armi, sicchè furono in un lampo maltrattati, disarmati e fatti prigionieri; pochi poterono salvarsi colla fuga.

Diversi gendarmi frattanto erano accorsi, e scaricavano fucilate sul popolo; ma per buona sorte non produssero che qualche ferita, ed un sol cittadino rimase ucciso, mentre inseguiti dall'inerme popolo, quegli Italiani rinnegati, fuggendo, si riparavano nella caserma. La caccia allora proseguiva in tutte le parti della città, e i pochi soldati della guarnigione degli spedali che si trovano sbandati, venivano inseguiti ed arrestati, e quelli che osavano rivoltarsi colle armi alla mano, erano a colpi di bastone feriti o massacrati. Finita questa caccia selvaggia, che avrebbe destato orrore se la santità della causa non l'avesse giustificata, e dirò anzi nobilitata, succedeva un'altra scena ben più aggradevole a vedersi; era l'atterrarsi e la distruzione degli abborriti stemmi. Ad ogni aquila bicipite, che veniva precipitata a terra, succedevano acclamazioni di gioia; quelle che erano formate di legno venivano spaccate, ed esultanti


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